Casa d'Autore
Questa era la casa di mio nonno, contadino.
Una struttura povera, essenziale, che ho scelto di lasciare intatta, proprio per custodirne la semplicità accogliente.
Con il tempo e con il mio sguardo creativo, le ho donato un’eleganza senza pretese, un’armonia leggera, una giocosità silenziosa.
Ora è ancora più viva, più calda. E, sì… decisamente unica.
É andata così
Sono del segno del cancro e mi piace il focolare domestico.
Si, la casa è una vera passione, mi prende lavorarla e deve essere funzionale, confortevole e accogliente.
Ho cominciato ristrutturando casa mia tanti anni fa.
Era la casa del nonno contadino e se la fece da sé, un poco alla volta. Mia madre mi raccontava che il nonno mentre scavava la cantina nel tufo, con criterio, maestria e tanta buona volontà, appezzava i tufi cioè col piccone tagliava il tufo in maniera da farne pezzi adatti alla costruzione, all’edilizia di allora; poi tagliava il legname , lo faceva stagionare e, quando era pronto, lo segava; poi dalla fornace del fratello prendeva col baratto (lo scambio di prodotti) il cotto che gli serviva per i solai, quando tutto il materiale era pronto e aveva i soldi per i muratori via, aggiungeva un pezzo di casa.
Una casa povera dunque e, di certo, sudata ma nella sua umiltà a me sapeva dolce forse perché mi richiamava nostalgicamente ai tempi che furono quando la vita era più povera ma più semplice, quando bastava poco per essere soddisfatti e talvolta anche felici. Forse questo non è neanche vero, la vita era dura, ma la paragono ad un altro tipo di durezza, una durezza subdola, quella di oggi: la frenesia che ci porta a correre, correre, correre perché “non basta mai” e non ci si rende conto che non si arriva mai… per questo vedo più roseo il passato e ciò che lo rappresenta e così in questa casetta mi sono fatta il mio rifugio.
L’ho ristrutturata insieme a Iginio, muratore in pensione, un capo mastro sul serio e che tanto mi ha insegnato. Ho cominciato con lui il fai da te. Da manovala fui presto promossa a mezza mescola e poi mi sono imparata velocemente a fare tutto quello che serviva: dalla muratura all’impianto elettrico al restauro alla falegnameria alla tappezzeria…
La feci rustica, atmosfera “casa del nonno” appunto, tutta lo stesso stile, legno a vista e pareti bianche, era piacevole e accogliente.
Poi, tanti anni dopo, ho avuto voglia di cambiare perché, come si dice, “ogni bel canto viene a noia” e così l’ho fatta totalmente soggettiva, personale, come mi veniva mano a mano che la facevo, non l’ho progettata prima, sono andata di getto, come quando dipingo un quadro ed ogni stanza è venuta diversa nei colori, nell’atmosfera.
Ogni stanza, a seconda dell’uso a cui è destinata, mi ha ispirata a modo suo: il colore delle pareti, la tecnica e persino il colore dell’interno degli infissi e dei termosifoni varia. L’arredamento è tutto riciclaggio. Mi piange il cuore vedere buttar via mobili in buono stato, è lavoro della natura (il materiale) e lavoro umano sprecato. Lo vivo come mancanza di rispetto, come sperpero, come dilapidare qualcosa di prezioso. Anche nella tappezzeria ho cercato fondi di magazzino e al mercato dell’usato: certo c’è da lavare via la polvere ma poi tornano come nuovi.
E così mi sono sbizzarrita, ho potuto così inventare facendo da me e dare libero sfogo alla mia creatività. Anche il decoupage, perché no? Vedere belle riviste in carta patinata buttate via…e allora ho ritagliato e incollato su oggetti che da brutti sono diventati belli ridando così loro funzionalità e quindi, come dire, vita.
“Necessità aguzza l’ingegno”…non avendo soldi a disposizione ho dovuto riciclare e fare da me e così ho scoperto che mi piaceva e che sapevo fare.
Ma soprattutto, nel fare da sé, è l’oggetto che ispira, che suggerisce le modifiche e il colore e quant’altro e così inizia un dialogo, una sorta di collaborazione tra il soggetto (chi fa) e l’oggetto (chi viene fatto) e si smuovono energie fino al punto che non si sa più
chi è che fa e chi viene fatto.
Essere presi da un lavoro, lavorare con passione, perdersi in ciò che si fa…è un arricchimento della personalità, se ne esce con qualcosa di più addosso.
Il risultato è che ogni stanza è diversa dalle altre, esprime un aspetto della mia personalità, il filo conduttore che le unisce è il carattere costante dell’accoglienza.
Ne risulta una casa “calda” di un calore “familiare”,
tanto familiare quanto basta perché ognuno possa sentirsi “ a casa “.
Il Salotto
Avevo voglia di mettere colore alle pareti. Comprai un libro di tecniche di pittura murale ma non ne trovai una che mi piacesse,
delusa mi dissi “e ora che faccio?” Ci pensai un po’ e mi risposi “provo”.
Volevo un’atmosfera che mi desse una sensazione che non sapevo definire, avevo una vaga idea del colore e non lo volevo piatto, uniforme
ma non sapevo di preciso cosa, come.
Con molta titubanza ho fatto da me un colore e l’ho dato con la pennellessa. Quando si è asciugato l’ho guardato e, mamma mia, non era brutto,
era proprio orribile.
Delusa, ero disposta ad arrendermi e rifare tutto bianco solo che sopra quel colore (un marrone scuro) avrei dovuto lavorarci troppo per riuscire a coprirlo.
Allora decisi che era meglio provare a lavarlo via, lavarlo via più che potevo e poi imbiancare.
Presi una spugna e il secchio dell’acqua e cominciai rassegnata.
Ma, stupita, come toglievo via il colore si scopriva un effetto che era proprio quello che volevo, mi dava proprio la sensazione di piacevolezza che cercavo.
E, così, feci tutta la stanza. L’intonaco vecchio, irregolare, ruvido, bucherellato si prestava bene a questo tipo di tecnica perché i difetti messi in risalto dal colore che ci si accumulava diventavano pregi e il risultato mi entusiasmò.
Ripresi coraggio, non ho avuto più la paura di sbagliare che mi frenava, avevo trovato la soluzione: se va male lavo via e rifaccio bianco.
Così mi sono “lanciata”, sono andata di getto, ascoltavo le mie sensazioni e mi sono lasciata suggerire, guidare, inventandomi così nuovi modi di dare il colore e nuovi effetti.
La stessa cosa con i mobili, con l’oggettistica, ho preso degli spunti qua e là ma poi quell’idea l’ho trasformata adeguandola al mio gusto alle mie sensazioni, mi sono lasciata guidare da queste e dall’oggetto stesso che si stava trasformando nelle mie mani.
Non sempre ne esce qualcosa di buono, anzi, talvolta basta poco per trasformarli da discreti a decisamente brutti e allora mi “mangerei le mani”, mi arrabbio con me stessa per non essermi accontentata del “discreto”, per questa esigenza di volerlo “di più, ancora meglio”, per quella sensazione che mi dice “non è finito, non ancora, ci manca qualcosa”… E quando sento che ci manca qualcosa non resisto, anche quando dipingo è la stessa cosa, un quadro è finito quando “non ci manca più niente”. Bene, ci ho messo qualcosa che lo ha peggiorato, bisogna correggere, non lo posso riportare come prima, devo aggiungere, modificare e via, dai e dai ecco che all’improvviso ne viene fuori qualcosa di nuovo, impensato, assai più bello e, come per la parete, capisco che quello sbaglio è stato sacrosanto, non più uno sbaglio ma una tappa necessaria del percorso per arrivare al giusto risultato: è così che il nuovo avanza, come nella casa così nella vita.
La Cucina
Gli ammodernamenti apportati in cucina sono i muretti che sostengono i piani di lavoro, il piano di cottura e la grande cappa, è bastato fare l’intonaco come lo facevano quando nacque la casa, un intonaco irregolare e non perfettamente liscio, gli angoli stondati e non perfettamente appuntiti e voilà, tutto sembra che c’era già.
Le Pareti
Le imbiancature fatte con materiale povero, a volte la calce, a volte non so che cosa, avevano fatto uno strato consistente, spesso e tutto screpolato. Decisi che prima di dare una buona tinta fosse cosa buona e giusta, togliere via il più possibile. Con la carteggiatura avrei fatto troppa polvere e optai per il lavaggio, ormai lo avevo sperimentato in salotto. Mi armai di scaleo, secchio d’acqua, spugna e una valanga di pazienza. A tre pareti, quelle dove ci sono i mobili, ho dato un crema molto chiaro ma, quando sono arrivata alla parete più vuota, quella che prosegue nell’ingresso ho sentito che ci stava bene qualcosa di diverso. L’avevo già lavata, pulita a fondo ma non mi bastò, mi venne la voglia di pulirla fino all’osso e ricominciai. Ero sullo scaleo che strusciavo nel pezzo di parete sopra la vetrina a muro quando appare un colore lilla, più struscio e più diventa evidente: bello ma proprio bello, mi riempiva gli occhi. Che fortuna, mi dissi, hanno dato un colore che mi piace e quindi mi basta portarlo in superficie e il gioco è fatto. Il tempo di svuotare il secchio, riempirlo di acqua pulita, ritorno sullo scaleo e … il lilla non c’è più. Perplessa mi spiego che forse è rifiorito il bianco. La tempera ha questa caratteristica: è persistente, sembra che non c’è più, che l’abbiamo pulita via ma quando il pavimento si asciuga lei ricompare, rifiorisce. Forse, mi dissi, fa così anche nel muro. Allora bisogna lavare di più e infatti lavando via quel bianco ecco che ricompare il lilla.
Ma quanto è bello questo lilla!
Più lavo e più appare, fantastico! L’acqua del secchio è da cambiare, vado e, quando torno, di nuovo, il lilla non c’è più.
Porca miseria ma quanto rifiorisce questo bianco! Lavo, decisamente lavo e ricompare il lilla ma questa volta lo tengo d’occhio, scendo mentre lo guardo, mi accendo una sigaretta, è un attimo, guardo su e il lilla non c’è più ma il muro è ancora umido, non si è asciugato… e allora? E allora capisco che il lilla non c’è, sono io che ce lo vedo e ce lo vedo perché quello è il colore che ci devo mettere. Già, come quando dipingo, capita che il colore ce lo vedo, come se ci fosse e la sensazione è chiara: è quello che ci manca, è quello che ci va messo! E’ un imperativo, senza ombra di dubbio.
E così ho cominciato a mettere il lilla e mi ci sono persa, ho lavorato quella parete come dipingessi un quadro e mi sono divertita un mondo: uno spazio grande come non ne avevo mai avuti, uno spazio grande dove poter riversare tutta la mia creatività, senza limiti, senza freni. E’ stato fantastico! Metti colore, togli, correggi e spazia…ho spaziato, avevo tanto spazio a disposizione, potevo fare un gesto a tutto braccio, che liberazione… E mi sono lasciata andare e mi sono lasciata prendere.
L’Ingresso
E questo come lo faccio?
La prima parte l’ho fatta di un verdino lavato, raffredda il rosso della porta, dell’appendiabiti e del soffitto e, soprattutto, era la giusta continuazione della parete lilla. La seconda parte dell’ingresso, quella verso il bagno, no, me la immaginavo con quel verdino e mi sapeva troppo di slavata, insignificante, senza carattere. Ho pensato di darle il marrone del salotto che mi era avanzato, forse cipria anche qui? L’ho dato e proprio no, decisamente no, lavare via dunque ma lasciandolo nei difetti del muro: nei buchi, nelle crepe, lì sì mi ci piaceva. E poi? Ci vedo un colore caldo ma non troppo. Ho messo insieme un arancio e un giallo ma mi sono fermata, avevo voglia di un effetto craquelé: come faccio?
Comperare la vernice apposta per darla sul muro mi sarebbe costata un patrimonio quindi niente tecnica sperimentata. E allora? Mi venne l’idea di inzuppare con l’acqua le pareti prima di dare il colore; avevo notato che quando si imbianca appena si passa con la pennellessa si vedono le crepature dell’intonaco poi, appena il colore asciuga, torna tutto uniforme. Mi sono detta chissà, forse inzuppandolo proprio, l’intonaco rimane crepettato e così fu.
Il giallo e l’arancio non si sono distribuiti uniformemente dando luogo a dei disegni, forse in quei punti di muro l’intonaco era stato fatto con altri materiali, forse erano riparazioni fatte con materiali che assorbono diversamente, meglio così perché il risultato è stato ottimo.
Le Scale e il Bagno
Ho voluto dare alle scale un carattere di giocosità.
Belle le scale di una volta, belle sì ma un po’ troppo pesanti (esteticamente parlando) e con il tufo a vista ai lati mi sapevano troppo seriose. Con il rosso al centro e il verde ai lati ho voluto rendere l’idea dell’elegantissimo tappeto rosso che scende lungo le scale dei palazzi importanti. Ovviamente scherzando.
Così nel bagno, mi sono divertita con gli avanzi del campionario da tappezzeria. Avevo un’amica che lavorava in un mobilificio e mi disse che rinnovavano il campionario e quello vecchio lo avrebbero buttato via, se mi interessava lo avrebbe preso per me. Così ho potuto sbizzarrirmi e, non avendo mai fatto una scuola di cucito, ho sperimentato nella totale incertezza del risultato ma non avendo speso un soldo per la stoffa mi sono lanciata e sbizzarrita a fare le cose più impensate.
Dulcis in fundo a quel troppo misero sciacquone di plastica ho voluto mettere la cravatta per conferirgli così un po’ di dignità.
Il Pavimento
Bello il pavimento,vero?
Decisamente sì, ma quanto lavoro…
E’ cominciato negli anni ’80, quando sono andata ad abitarci.
I nonni avevano dipinto tutti i pavimenti in cotto con la vernice rossa, a quei tempi si usava rimodernare così: vuoi cambiare, vuoi qualcosa di nuovo e allora si fa così, una bella mano di vernice rossa luccicante. Questo era il metodo più economico e veloce per rifare un pavimento, sul
rosso ruggine, il colore del cotto naturale, spalmavano un rosso lucido e con poco ecco che davano quel tocco di modernità. Probabilmente stavano meglio economicamente per permettersi di comperare il superfluo, la vernice non era una cosa necessaria, un bene primario e quella mano di
rosso sul pavimento serviva anche a cancellare i tempi passati, quelli in cui si stava peggio quando c’era più povertà.
Per togliere la vernice mi sono armata di tanta buona volontà, di tanta santa pazienza e tantissimo olio di gomito e quindi: spazzola d’acciaio (non so quante ne ho consumate) e secchio con l’acqua perché il cotto va spazzolato da bagnato altrimenti diventa nero e, ovviamente, si lavora in ginocchio. Pulita via la vernice, asciugato il pavimento, un po’ di cera trasparente ed ecco il cotto riportato al suo stato naturale.
Passano gli anni e ho voluto modificare il caminetto per renderlo più comodo e sicuro ed è stato necessario l’aiuto di un giovane muratore, abile nella muratura ma maldestro rispetto al luogo perché con gli attrezzi mi ha rigato un bel po’ di pavimento. Lì per lì mi sono scoraggiata per questo danno da riparare e non sapevo come poi, dopo riparato, mi sono resa conto che è stato un bene perché ne è scaturito qualcosa di nuovo e migliore.
Quei righi erano come solchetti di colore diverso dalla superficie del resto della quadrella (il cotto quadrato) e non era possibile ripararli con del colorante, ci ho provato ma no, diventavano ancora più evidenti. Allora ho preso la carta vetrata per riportare tutta la quadrella allo stesso colore del rigo che c’era ed è diventata omogenea ma più chiara, di un colore beige. Come mai beige e non rosso ruggine come era prima? Evidentemente il colore ruggine lo aveva preso dalla vernice rossa e
raschiando ancora di più con la carta vetrata è uscito il suo colore vero, ma perché beige?
Probabilmente era una partita di quadrelle poco cotte, una cottura venuta male e siccome costavano meno è di certo per questo che mio nonno le ha prese. La robustezza non era compromessa perché l’argilla della nostra zona e il lavoro accurato che facevano i fornaciai di allora rendevano questo materiale egualmente resistente. Bene, scartavetro, scartavetro e scartavetro finché il pavimento è tutto omogeneo, un bel beige omogeneo. Lo guardo e lo riguardo e c’è qualcosa che non mi
convince; un bel lavoro sì perché è tutto omogeneo ma bello, questo beige, proprio no mi sapeva di scolorito, di slavato. Pensa che ti ripensa mi venne in mente che una volta trattavano i pavimenti con la “morca” dell’olio d’oliva. La morca era la fondata, quella parte densa e scura che si deposita sul fondo dei recipienti dell’olio.
Un passo indietro.
All’epoca dei nonni il cotto che usciva dalla fornace (la fornace del fratello che era situata vicinissima a case Giovagnoli) non era liscio, era rugoso e anche spunzoso: come fare per renderlo più liscio? Bene, i poveri si sono inventati le feste da ballo. A quei tempi nelle campagne tutti, uomini e donne, indossavano le scarpe con le “bollette”. Le bollette erano dei chiodi corti con la testa semisferica che venivano piantati nella tomaia di cuoio e ne venivano messi tanti quanti bastavano a isolare il cuoio dal terreno perché così non si consumava, i soldi per rifare le suole non c’erano e con le bollette le scarpe duravano di più. Bene, vi immaginate coppie che ballando strusciano con queste scarpe il pavimento appena messo? Il risultato era un pavimento sicuramente più liscio. L’arte di arrangiarsi è meravigliosa!
Lisciato il pavimento si lavava bene, si lasciava asciugare e poi si inzuppava con la morca che veniva lasciata qualche giorno affinché il pavimento la assorbisse bene e poi si ripuliva per togliere via i residui. Il risultato? Un bellissimo color cuoio e un pavimento che non si poteva macchiare più.
Torniamo alle mie quadrelle beige.
Adesso la morca non si trova più, nessuno la mette da parte perché potrebbe servire e allora mi dissi, provo con l’olio ma non potevo sprecare l’olio d’oliva, costa tanto quello buono, provai quindi con l’olio di semi di girasole del supermercato e provai su una quadrella nascosta sotto una poltrona (se viene un pasticcio non si vede) ma con mia piacevole sorpresa vidi che il colore cambiava, diventava più scuro, non più slavato. Sarebbe stato comodo e veloce spargere l’olio su tutto il pavimento ma mi venne voglia di farlo “pezzato”, di farci un movimento di due colori, il beige e il marroncino dato dall’olio. Presi un pennellino e una tazza con l’olio e con molta cautela cominciai a “colorare” le quadrelle e ci vuole il pennellino perché bisogna essere precisi, non si devono sbaffare quelle adiacenti. Finito di oliare qua e là senza un disegno preciso mi dissi: chissà se dando ancora olio si scuriscono di più? Provai e vidi che così era. Cominciai a scurirne alcune, poi ritoccai ancora qua e là e tra una mano di olio, ad alcune quadrelle due, ad altre anche tre, finii il pavimento del salotto.
Ne vado fiera perché ho cambiato un pavimento con 6 metri di carta vetrata e 1 litro di olio di semi da frittura.
“Necessità aguzza l’ingegno” e certamente questo non mi manca.
La Taverna
Era la stalla del nonno, c’erano due mucche, quattro vacche, due asine.
Le mucche servivano per la produzione del latte con cui si faceva il formaggio, la fiorita, la ricotta e questi prodotti, oltre che per il fabbisogno della famiglia, venivano venduti per comperare il sale, lo zucchero, le stoffe, le scarpe e tutto ciò che non potevano produrre da sé. Il vitello, una volta svezzato, veniva venduto, non lo macellavano mai per il loro fabbisogno perché la sua carne era un lusso che non si potevano permettere. Per la produzione di carne veniva allevato il maiale e, ogni famiglia, ne aveva almeno uno.
Le vacche servivano per lavorare i campi, tiravano l’aratro, e per i trasporti ingombranti tiravano il carro: praticamente erano il trattore d’altri tempi e il carro era il rimorchio. Anche loro partorivano il vitello ma non servivano per la produzione del latte.
Le asine erano l’automobile, a cavallo dell’asina si andava dal dottore nel paese vicino, al mercato in quell’altro paese e erano adatte anche come animali da soma: si metteva loro una sella particolare il “basto” e su questo ci si caricava la legna da portare a casa, i bigonci (allora di legno, la plastica ancora non c’era) pieni d’uva quando si vendemmiava e la merce da vendere quando si andava al
mercato (l’olio d’oliva, il miele, il grano). Inoltre l’asina ha un pregio particolare: il suo latte è simile al latte materno e, a quei tempi, se una puerpera non aveva latte per nutrire il suo bambino era molto ricercato il latte d’asina.
Quando sono entrata per la prima volta in questo locale c’erano ancora le mangiatoie e a malincuore ho dovuto disfarle ma ho conservato con molta cura le tavole con i loro classici buchi che, dopo 40 anni, ho utilizzato come mensole nella casa in cui vivo adesso. Sono nostalgicamente bellissime.
Quello che sopravvive ancora oggi della vecchia stalla è la traccia della canaletta di scolo del liquame e il cancello di legno anche lui nostalgicamente bellissimo e incredibilmente robusto perché, imperterrito, ancora resiste all’usura del tempo.
Anche il pavimento è l’originale della stalla, un po’ rovinato, ne ha viste tante del resto e un po’ macchiato di blu. Il blu però è recente perché qui ho dipinto i miei blu, la stalla è diventata il mio atelier.
Dalle stalle alle stelle? Ai posteri l’ardua sentenza.
Si…ma dove si trova?
Al centro di un’oasi incontaminata da industrie, agricoltura intensiva, autostrade e ferrovie, circondato da una natura selvaggia e multiforme si trova il paese di San Giovanni delle Contee.
Zona non ancora sviluppata turisticamente offre una natura meravigliosa, ricca di fauna selvatica, pace in abbondanza, aria pulita, panorami stupendi e a 20/30/40 minuti auto: Terme di San Casciano
dei Bagni, Terme di Bagno Vignoni, Terme di Saturnia, Terme di Sorano, Lago di Bolsena, Monte Amiata, borghi medievali di Sorano, Pitigliano e Sovana con il suo Parco Archeologico Etrusco.
Piacevoli escursioni perché le strade prive di semafori e immerse in questo ambiente scarsamente popolato vi offrono un viaggio nella natura e nella calma.
Per la stessa ragione si può piacevolmente praticare su strada: bici, footing e passeggiate.
Innumerevoli sono le possibilità di escursioni “fuori strada” con mountain-bike e passeggiate che consentono un vero e proprio “tuffo” nella natura.
Una natura che si alterna tra boschi, campagna coltivata “dai nonni” e gli stupendi Cretoni, i calanchi argillosi e brulli che si trovano sul lato nord del paese. E poi le “Vie Cave”, le strade scavate nel tufo dagli antichi etruschi e altri sentieri ricchi di storia ripristinati da un gruppo di volontari “I custodi delle vie cave” che sovente propongono passeggiate più o meno impegnative con tanto di guida e picnic in mezzo al bosco.
Questa zona, circondata da luoghi turistici ma non ancora scoperta dal turismo di élite né da quello di massa, conserva ancora quell’atmosfera di “come si viveva una volta”. Siamo subito avvolti dal fascino di questo “sapore d’antico” che suadentemente ci cattura e ci immerge nel suo “andamento
lento” collocandoci in un’altra dimensione che sarà difficile dimenticare.
Case sparse Giovagnoli
Il borgo, gruppo poderale con 4 abitanti residenti, semplice, modesto, com’era una volta e la natura, campagna con la struttura rurale dei tempi che furono, permettono, senza l’impegno di un totale
isolamento, un contatto che ci fa scivolare in ritmi di vita che ci restituiscono la possibilità di far salire in superficie il riconoscimento di un vivere genuino,ideale per “staccare la spina” e ricaricarsi di sana energia.
Un po’ di storia
Da Palizzi a Severini
Pittori italiani tra Ottocento e Novecento nella raccolta Bologna Buonsignori



































